La comunità delle origini

Secondo molti studiosi si evidenzia che nei passi del Nuovo Testamento il termine chiesa
ricorre molto più al plurale, ovvero chiese. Nel corpus paolino (le sue lettere) il
termine ekklèsia non indica la chiesa universale (questa idea compare circa un secolo dopo).
Li dove Paolo, e solo in Col. 1 ; 18-24 , usa il singolare “chiesa“, serve a testimoniare
l’ideale senso di continuità con Israele, non una singola “entità universale”, per cui è
appropriato parlare di “chiese storiche“, di “comunità delle origini” ma non di una “singola
chiesa unificata universalmente“.

Afferma il teologo J.D.G. Dunn: Il postulato è chiaro: il
cristianesimo che andava delineandosi (dalla resurrezione e Pentecoste
in poi….) agli inizi del 30 d.C., non era un “oggetto unico“ ma tutta
una serie di rapporti, di prospettive di comportamento e di fede che
andavano emergendo, di modelli di interazione e di culto, di condotta e
missione in via di sviluppo.
Fondamentale per noi è quindi non tanto se sia possibile parlare di un
oggetto unitario (movimento, chiesa, massa di credenti) ma se i diversi
e variegati aspetti colti da questi termini, costituiscano un tutto coerente o dissimulino
invece una eterogeneità che ben difficilmente poteva essere presentata fin dall’inizio come
unità.
Non possediamo scritti delle prime comunità esistenti prima di Paolo.
In genere ricostruiamo la loro “immagine“ attraverso le lettere di Paolo, gli Atti degli
Apostoli, stralci presenti nei Vangeli. Tuttavia sia per gli Atti che per i Vangeli, va
considerato che l’immagine della comunità primitiva è sviluppata secondo i punti di vista di
un’epoca posteriore.

La comunità post-pasquale è una comunità che ascolta e interpreta.
Per circa due secoli, molti studiosi hanno voluto mettere in evidenza l’eventuale contrasto,
ovvero, per alcuni, la netta antitesi tra l’intento proprio di Gesù storico e ciò che il
primissimo cristianesimo presentava di Lui (Gesù della storia e Cristo della fede!) .
E’ sostanzialmente riconosciuto da molti studiosi (tra cui K. Barth) che subito dopo
l’avvenimento della Resurrezione non venne meno una “comunità della galilea“, ovvero
discepoli di Gesù che vollero custodire il suo insegnamento sapienziale e sovversivo nella
loro missione e non mostrarono interesse alla insorgente teologia paolina della “croce e
resurrezione“; queste comunità non durarono nella storia, prevalentemente scomparvero a
seguito della dispersione del popolo di Israele dopo gli avvenimenti del 70 d.C. ( la
distruzione del Tempio ) e del 120 d.C. circa, con la sconfitta e dispersione definitiva di
Israele ad opera dei Romani.
Non si può negare, quindi, che “agli albori del cristianesimo“ esistevano gruppi e comunità
diversi, che si ponevano in un rapporto diverso con “Gesù di Nazaret“.

In (Galati 1;12), Paolo, viceversa, non mostra nessun interesse verso la continuità
storica della figura di Gesù, sposta il processo di salvezza su un piano diverso, quello della
“nuova creazione“.
La cristologia di Paolo si è sviluppata in ambiente “giudaico“.
Sarebbe un errore fuorviante non tener conto del retroterra giudaico di Paolo.
Ciò che Paolo attacca della convinzione giudaica, non è l’idea di conquistare l’approvazione
di Dio con il merito di una approvazione personale (opere buone), che in Paolo coincide con
la “conversione“ e le sue logiche conseguenze positive, bensì l’intento giudaico di evitare ,
anche in modo violento, che il privilegio della condizione dell’alleanza venga “dissipato o
contaminato dal contatto con i giudei”.
Paolo si oppone a questo esclusivismo. La giustificazione “per sola fede“, in Paolo, si
oppone alla convinzione giudaica che “opere della legge”, come la circoncisione e le leggi
sul puro e l’impuro, possano costituire il fondamento del rapporto di alleanza con Dio,
sia per i gentili che per i giudei, vedi Galati 2 ; 1-21.
Paolo ha sempre posto la assoluta e esclusiva necessità di “rispondere a Dio con fede“.
Altra concezione determinate per le comunità fondate da Paolo, che seguivano la sua
impostazione teologica, era la concezione del dono dello Spirito Santo come elemento
fondamentale e costitutivo dell’essere cristiani ( Galati 3 ; 2 – 5 ).
In conclusione l’apostolo Paolo, all’interno del movimento cristiano, che alle sue origini era
già vario e diffuso, fa si che i “gentili” convertiti al cristianesimo non venissero trattenuti
nel prevalente contesto e nelle forme della “culla“ del giudaismo cristiano tradizionale,
bensì egli reinterpreta in modo autorevole le tradizioni e le forme originarie del nuovo
movimento.
Per questo egli merita il titolo, da molti riconosciuto, di “secondo fondatore del
cristianesimo“.

Giuseppe Verrillo